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sabato 29 dicembre 2012

Il Vaticano e l'uomo della Provvidenza


Articolo pubblicato sul blog beppegrillo.it 

Quando il cavalier Benito Mussolini firmò i Patti Lateranensi con il Vaticano nel 1929, papa Pio XI lo ribattezzò in un discorso pubblico "Uomo della Provvidenza": "E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti, tutte quelle leggi, diciamo, e tutti quei regolamenti erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi quanto più brutti e deformi". Sono passati 83 anni e Rigor Montis, un altro uomo della Provvidenza, gesuita di educazione, cattolico praticante, che ha seguito durante il suo governo la massima di togliere ai poveri per dare ai ricchi, si è manifestato.
E' salito tra noi. Porta in dono l'IMU e le scuole private al Vaticano al posto di oro, mirra e argento. L'Osservatore Romano ha così spiegato l'entusiasmo del Vaticano "Salire in politica è in sintesi l'espressione di un appello a recuperare il senso più alto e nobile della politica che è pur sempre, anche etimologicamente, cura del bene comune". L'Osservatore continua "Napolitano... al quale tutti riconoscono il merito di aver individuato proprio nel senatore a vita l'uomo adatto a traghettare l'Italia fuori dai marosi della tempesta finanziaria" A cui il Vaticano è rimasto immune.. Un IMU val bene una messa. Bagnasco ha elogiato Rigor Montis "Non si possono mandare in malora i sacrifici di un anno". Parla ovviamente dei sacrifici degli italiani, non risultano infatti sacrifici del Vaticano. Se Agnelli spiegò che la Fiat è sempre governativa, il Vaticano è qualcosa di più, si fa esso stesso governo di uno Stato estero. Vanno distinti Chiesa e Vaticano, la prima è la casa di tutti i cattolici, il secondo è uno Stato che fa i suoi interessi terreni. Il Vaticano non può ingerirsi negli affari della Repubblica Italiana, così come lo Stato Italiano non deve influenzare, ad esempio, la nomina del prossimo Papa o del Segretario di Stato. Cavour usò la frase "Libera Chiesa in libero Stato" per affermare il principio della divisione tra il potere spirituale della Chiesa da quello temporale, rappresentato dai Savoia. Non aveva previsto Mussolini, il Vaticano, Bagnasco, Bertone e Rigor Montis. Forse è il caso di rivedere i Patti Lateranensi.

mercoledì 26 dicembre 2012

Stiamo arrivando! (Beppe Grillo).

Articolo pubblicato sul blog beppegrillo.it il 23.12.2012

Al Grand Hotel Italia c’è chi va, chi viene, quasi tutti restano. E’ un luogo fantastico. Si trova in pieno centro a Roma, in piazza Montecitorio. Chi ci è stato, anche per un breve periodo, non ne può più fare a meno. E’ come una droga per cui non c’è cura. Chi vi entra si trova sospeso tra il cielo e la terra, si illumina di nuova luce, la sua voce è propagata per tutto il Paese da una selva di microfoni ossequianti. Non importa quello che dice e neppure come si esprime. La gente lo guarda con nuovi occhi, televisivi, e lo ammira. Lui, lei, lo sanno. Sanno che sono assurti a nuove divinità da temere e adorare, come un tempo Mercurio o Diana. Il Grand Hotel è l’Eden, il Paradiso Terrestre dove per magia i rospi sono trasformati in principi, le mignotte in statiste, gli analfabeti in giuristi, i mafiosi in senatori. Chi non vorrebbe farne parte? E’ il raggiungimento di un sogno, la vincita al superenalotto, la posizione sociale più ambita, la bacchetta magica della fata Smemorina. C’è chi ucciderebbe la madre o prostituirebbe la sorella per un seggio da parlamentare. La vita all’interno del Palazzo Dorato, presidiato da attenti guardiani che vigliano sulla incolumità degli eletti, si svolge tra buvette, camerieri, poltrone ottocentesche, bronzi, scaloni monumentali, arazzi, mobili rococò, corridoi damascati e un’aula dove il massimo sforzo è pigiare un bottone per votare su indicazione del partito e in cui, talvolta, gli ospiti si esibiscono con voce tremante in discorsi fiammeggianti preparati da moderni scribi che occupano gli uffici stampa ai piani superiori. Negli incontri occasionali è tutto un fiorire di “Onorevoooole” e “Direttore“, “Sottosegretario” e “Ministroooo“. Negli sguardi brilla la soddisfazione di chi ha raggiunto l’irraggiungibile. Si può entrare nel Palazzo solo per raccomandazione, è necessario essere presenti in una lista di nomi scelti, uno per uno, dai tenutari del grande edificio barocco trasformato in un postribolo della democrazia. La lista è chiusa, nell’elenco sono sempre presenti alcune centinaia di nomi che hanno già maturato legislature di esperienza nel Palazzo (oltre al vitalizio) e fede cieca nella causa. I nuovi posti a disposizione sono pochi, si possono ottenere solo in virtù di denaro, una nomina si può trattare per un milione o due, di pacchetti di voti, non inferiori ai diecimila, di amore a prima vista, o anche a occhi chiusi, per i tenutari. In questo posto sconsacrato della democrazia, isolato dalla società civile, occupato dai Nuovi Proci, entreranno a fine febbraio dal portone principale dei Cittadini del M5S, che in aula si faranno chiamare “Cittadini“. Saranno insieme a milioni di italiani che vedranno con i loro occhi, proporranno con le loro parole, voteranno con le loro mani attraverso la Rete. Stiamo arrivando. Loro non si arrenderanno mai (ma gli conviene?). Noi neppure.

giovedì 20 dicembre 2012

Finalmente condannate le banche che smerciano robaccia

Articolo scritto da Michele Serra su La Repubblica del 20/12/2012.

Se un macellaio vi vende carne marcia, o un falegname vi consegna una sedia con le gambe rotte, non c’è cavillo giuridico che possa salvarli dall’obbligo di risarcimento. Perfino i medici sono chiamati a rispondere di eventuali lesioni dovute a cure sbagliate o interventi maldestri.
La sentenza di Milano che riconosce responsabili quattro banche per avere investito il denaro del Comune nei famosi “derivati” — l’equivalente finanziario della carne marcia e della sedia con le gambe rotte — è dunque storica perché “laicizza”, finalmente, l’idea stessa che abbiamo del sistema bancario, sconsigliando, per il futuro, la classica definizione di “santuari della finanza”. Se è vero che esiste un margine di rischio (ogni investitore è tenuto a saperlo), è anche vero che le banche, negli anni precedenti il crac del 2008 e la paurosa crisi susseguente, hanno non solo accettato di trattare robaccia dal rendimento dopato e dalle basi inconsistenti; ma hanno – smerciando quella robaccia a piene mani – contribuito a renderla normale, plausibile, consigliabile.

Così come il mestiere del macellaio è controllare che la carne non sia guasta, non dovrebbe una banca, fatto salvo il margine di rischio, verificare che un prodotto finanziario non sia una bufala?

sabato 15 dicembre 2012

I distacchi sindacali, un privilegio che ci costa 151 milioni all'anno


Qualche settimana fa i giornalisti de Lo Spiffero, quotidiano online di Torino, hanno scoperto che figli o parenti (con tanto di nomi e cognomi) di sindacalisti sono stati assunti dall’azienda di trasporto torinese per poi essere subito distaccati presso Cgil, Cisl e Uil. Costoro sono stati assunti per chiamata (in un momento in cui nessun giovane normale trova posto) e, una volta guadagnatasi la busta paga pubblica, si sono imboscati, con tutti i crismi, presso un’organizzazione privata.
Questi privilegi (o meglio “prerogative”) si chiamano “distacchi sindacali”, in barba alla crisi e ai tagli alla spesa.
Nel 2010 – secondo la Corte dei Conti - i permessi sindacali nel settore pubblico sono costati all’Erario 151 milioni di euro. La fruizione dei diversi istituti (aspettative retribuite, permessi, permessi cumulabili, distacchi) può essere stimata come equivalente all’assenza dal servizio per un intero anno lavorativo di 4.569 unità di personale, pari a un dipendente ogni 550 in servizio.
In tempi come questi, possiamo  davvero permettercelo?

Province, i costi del flop Monti


Articolo di Mauro Munafò, pubblicato su l'Espresso.it


La loro soppressione poteva portare risparmi miliardari. Ma il governo ha preferito una riforma poco incisiva sui conti, bloccata dal Parlamento. Ecco cosa succede adesso e quanto ci costerà

Doveva essere il fiore all'occhiello dell'azione del governo contro la casta, gli sprechi della politica e la burocrazia di stato E, invece, la travagliata riforma delle province si è rivelata un disastro tecnico ed economico per l'esecutivo Monti, pari forse a quanto accaduto con la vicenda esodati. In pochi mesi si è così passati dall'abolizione totale, alla riduzione del numero e infine al nulla di fatto.

"E' una riforma nata male, non troppo diversa da quanto aveva già previsto Tremonti", spiega Andrea Giuricin, professore della Bicocca e ricercatore per l'Istituto Bruno Leoni, "Un vero risparmio, senza creare confusione sulle funzioni, si sarebbe ottenuto con l'abolizione completa delle province e il governo aveva tutto il tempo di avviare una procedura di riforma Costituzionale per farla. Preferendo invece l'accorpamento, ha creato una norma facilmente attaccabile in Parlamento".

I costi e i (mancati) risparmi. Secondo uno studio realizzato proprio da Giuricin per il Bruno Leoni, l'abolizione completa delle province avrebbe portato a un risparmio di circa 2 miliardi di euro l'anno, prevedendo un trasferimento delle loro funzioni alle Regioni. Oggi le province spendono in totale circa 11,5 miliardi e la cancellazione del loro "livello", garantendo però il mantenimento dei posti di lavoro, avrebbe permesso enormi economie sul lato di amministrazione e controllo. "L'abolizione delle province avrebbe permetto di risparmiare 869 milioni in amministrazione, 140 milioni di costi politici e circa un miliardo grazie alle economie di scala", continua Giuricin nel suo studio, "Parliamo quindi di un valore quasi quintuplo rispetto a quanto previsto dalla riforma del governo".

L'esecutivo infatti, dopo aver prima annunciato l'intenzione di abolire le province, ha preferito seguire la via dell'accorpamento con la riduzione del numero complessivo di enti e delle loro funzioni. Un piano che nelle previsioni (piuttosto fumose) del ministero della Funzione Pubblica avrebbe permesso risparmi tra i 370 e i 530 milioni di euro, ma assai contestato sia da chi chiedeva l'eliminazione totale delle province sia da chi voleva mantenerle.

"Il governo ha commesso un grave errore. Il ministro ha dichiarato di voler mantenere le province ma con funzioni ridotte: è un ragionamento profondamente sbagliato", spiega Luigi Oliveri, dirigente della provincia di Verona, ed esperto di diritto degli enti locali per LaVoce e LeggiOggi, "Come si può pensare di realizzare economie di scala se si fa spezzatino delle funzioni affidate? Frastagliando i compiti tra venti regioni e ottomila comuni non è possibile un vero risparmio e non mancano altri gravi errori. Ad esempio, hanno tolto alle province la responsabilità su formazione e lavoro, lasciando però la scuola secondaria, come se i due ambiti non fossero collegati tra loro".

Il danno e la beffa. Dal punto di vista dei costi il fallimento governativo è quindi doppio: nonostante abbia optato per una riforma dai risparmi inferiori, l'esecutivo Monti non è riuscito a portarla a termine, finendo bloccato in Parlamento tra dubbi di costituzionalità e prevedibili resistenze da parte dei potentati locali. Di più, ai mancati risparmi si sostituiscano adesso i costi aggiuntivi tutti da definire. "Tra le conseguenze [del mancato rinnovo del ddl ndr], oltre ai mancati risparmi che si sarebbero ottenuti con la riduzione delle Province, ci sarebbe una lievitazione dei costi a carico dei Comuni e soprattutto delle Regioni" spiega un allarmato comunicato del ministero della Funzione Pubblica.

Non bastassero i guai economici, il flop sulla riforma delle province investe ancora di più l'aspetto funzionale. Tre diversi atti normativi (il salva-Italia, la Spending Review e il ddl sul riordino) hanno spostato competenze tra province, regioni e comuni, ma la decisione del Senato di non convertire in legge il ddl sul riordino impedisce di completare l'opera e adesso serve capire quale ente dovrà fare cosa. E soprattutto: con quali soldi?

giovedì 13 dicembre 2012

Province stagnanti


Questo articolo è di Massimo Gramellini, pubblicato su "La Stampa" del 13/12/2012


La commissione affari costituzionali del Senato ha impiegato appena tre quarti d’ora per affossare la riforma delle province. Ma è il «come» che merita di essere raccontato e ringrazio il lettore G.P. per il resoconto della riunione. Il presidente della commissione Vizzini (già segretario del Psdi quando il centravanti del Milan era Van Basten) esordisce spiegando che il provvedimento è stato oggetto di esame accurato, ma che la crisi politica e la presenza di emendamenti e subemendamenti da approfondire rendono arduo il completamento dell’esame. Il senatore Boscetto (Pdl) condivide e ritiene necessario un rinvio. Il senatore Calderoli (Lega) rileva che il lavoro di sintesi, encomiabile, non è stato in grado di individuare una soluzione condivisa. Il senatore Bianco (Pd) ringrazia il presidente e prende atto con dispiacere che non sussistono le condizioni per proseguire. Il senatore Milana (Udc) condivide la valutazione del senatore Bianco e il senatore Pardi (Idv) rileva incongruenze ma auspica. Il presidente Vizzini prende atto e toglie la seduta.

Non uno che abbia avuto il coraggio di dire la verità: sono contrario a ridurre le province perché garantiscono posti e clientele. Tutti pronti, i finti litiganti da talk show, ad arrampicarsi in cordata sugli arabeschi delle procedure parlamentari pur di vanificare, senza assumersene la responsabilità, l’unico provvedimento che tentava di cambiare finalmente qualcosa. Questo sconcio balbettio viene chiamato comunemente politica, ma ne rappresenta l’esatto contrario. La politica è acqua tumultuosa ricondotta negli argini, non stagno dove galleggiano i tronchi marci dei nostri ideali.

domenica 9 dicembre 2012

Crescere si può


Come può tornare a crescere un paese vecchio, ricco, densamente popolato e con un sistema industriale fondato sulla piccola impresa? Lo spiega Francesco Daveri, intervistato da Sergio Levi, nel nuovo libro della serie de lavoce.info in collaborazione con Il Mulino: "Crescere si può". Ne pubblichiamo un estratto.

(...) Qual è il motivo principale per cui abbiamo smesso di crescere, e per cui (plausibilmente) non potremo più tornare a crescere come in passato?

Con una formula sintetica, si può dire che abbiamo smesso di crescere da quando siamo diventati un paese VERDE, vale a dire, un paese VEcchio, Ricco e DEnsamente popolato. Siamo vecchi perché già oggi 20 italiani su 100 hanno più di 64 anni; una quota così alta di persone anziane la si trova tra i paesi ricchi solo in Giappone. In un paese vecchio si formano maggioranze politiche contrarie al cambiamento e all’innovazione: e senza innovazione non c’è crescita. In secondo luogo, siamo molto più ricchi di una volta: il nostro reddito pro-capite è circa il doppio di mezzo secolo fa. E in un paese con la pancia piena diminuisce la voglia d’inventarsi (o cercarsi) un lavoro dove c’è, mentre cresce l’aspirazione a trovarselo sotto casa. (…) Infine, con i nostri 206 abitanti per chilometro quadrato, siamo anche un paese molto più densamente popolato rispetto agli altri paesi ricchi dell’Ocse che di abitanti per chilometro quadrato ne hanno solo 35. (…) In un paese densamente popolato aprire un negozio o una fabbrica e realizzare un’infrastruttura diventa terribilmente complicato e costoso. E con alti costi di produzione e commercializzazione dei prodotti si fa fatica a competere nel mondo globale.

Ma se i limiti che fanno di noi un paese VERDE non si lasciano scalfire, perché non cercare di sostenere la crescita riducendo le tasse o aumentando la spesa pubblica? In altre parole, perché non dare ascolto a quanti invocano un provvisorio allentamento dell’austerità, almeno finché dura la crisi?

Penso che la via fiscale sia una strada pericolosa, e soprattutto senza sbocchi, perché presuppone una crescita hard che all’Italia, paese VERDE, ormai è preclusa. Inoltre, noi italiani siamo abituati da troppo tempo a convivere con un debito pubblico enorme; e allora penso, se anche il governo ci desse uno stipendio mensile a titolo gratuito, ognuno di noi sarebbe portato a chiedersi: e domani cosa succede? Questi soldi che lo Stato mi regala, in che senso me li sta regalando? Poniamo che ognuno di noi riceva dallo stato mille euro al mese per un anno. Chiediamoci che uso potrebbe farne. Difficile che vada a spenderli, sapendo che sono solo per un anno, e che stanno dando a tutti la stessa cifra. Se penso che i soldi che ricevo oggi li devo ridare all’Agenzia delle Entrate domani, allora invece di spenderli, li risparmio. Ma risparmiarli significa metterli in banca: in questo caso, il governo, erogando quei soldi, starebbe facendo un favore alle banche e, solo indirettamente, alle imprese. (…)

Quindi, in un paese VERDE come il nostro la strada di una crescita estensiva basata sulle opere pubbliche è sbarrata. Se neanche lo stato può aprire una via fiscale alla crescita, riducendo le tasse o aumentando la spesa, non ci rimane che usare meglio le risorse a disposizione. Ma allora è vero che le liberalizzazioni sono di cruciale importanza; molto meno chiaro è come si suppone che debbano funzionare.

Le liberalizzazioni servono, di solito, a favorire l’imprenditorialità, facilitando l’ingresso di attori che hanno qualcosa di nuovo da apportare nei vari settori. Sono il veicolo principale dell’innovazione. Però, se devono far crescere l’economia, bisogna che siano fatte in modo da rendere le imprese più competitive, soprattutto quelle che esportano. In questo contesto (detto fra parentesi) propongo di guardare all’Italia come a un grande paese industriale, perché lo considero ancora un buon paradigma. Anche se arranca da diversi anni, la nostra industria rappresenta ancora il 19 per cento del nostro Pil, mentre in Inghilterra rappresenta solo il 16 per cento, e in Francia il 12 per cento. Non siamo come i tedeschi, che sono al 26 per cento, ma non siamo neanche messi così male da questo punto di vista. Ebbene, per cercare di fare crescere l’industria italiana c’è una cosa che bisogna tassativamente fare, ed è cercare di fare in modo che i servizi di cui l’industria ha bisogno costino meno. (…)

È stato detto che le liberalizzazioni di Monti non hanno funzionato perché sono state pensate dal punto di vista dell’offerta dei servizi, anziché dal punto di vista dell’utente.

È così. E aggiungerei che anche in quei casi in cui guardavano ai consumatori, hanno ottenuto poco. Aumentare il numero delle farmacie, in che senso mi beneficia, se sono un consumatore di farmaci? Mi può dare un beneficio se i farmaci vengono a costare meno. Se aumentiamo il numero delle farmacie, ciò che si riduce nel migliore dei casi è il costo di andare in farmacia, perché ci metto meno tempo, ho un vantaggio di prossimità. Però bisognerebbe chiedere agli anziani se preferiscano fare 300 o 500 metri in più per andare a prendere il farmaco nel paese vicino e pagarlo meno; oppure pagarlo come prima (perché i farmaci di fascia C non vanno nelle parafarmacie) ma fare meno strada. (…)

Pare di capire che dalle liberalizzazioni avviate dal governo Monti non potremo aspettarci molto in termini di ripartenza dell’economia e di crescita del Pil.

Il problema, secondo me, è che queste misure sono state applicate in modo un po’ astratto. Io sono molto favorevole alle liberalizzazioni, ma non perché facciano crescere subito l’economia; per quello ci vorrà del tempo. In generale, le liberalizzazioni, la riduzione delle barriere all’entrata al fare impresa e innovazione, fanno aumentare la concorrenza e la libertà, e maggiore concorrenza e libertà di fare rendono la società più aperta e meno esposta al ricatto delle corporazioni che infestano l’Italia. Però, per fare in modo che le liberalizzazioni diano qualche risultato in termini di crescita, bisogna guardare il paniere dei prezzi al consumo delle famiglie, per capire quali voci sono più importanti o sono cresciute di più; e su queste si può intervenire in varie forme, in parte dirigistiche, in parte liberali, per ottenere risultati concreti. (…)

(…) Sembra di capire che solo «restando in Europa» e solo contribuendo a far crescere l’Europa potremo tornare a crescere in Italia.

È così. Mentre la crescita soft (quella delle idee) è più adatta a noi italiani, che – come sempre si dice – siamo genio e sregolatezza, la crescita hard può andare bene per i tedeschi e i cinesi: conviene lasciarla a loro. Quel che possiamo sperare è che la crescita hard che la Germania e i suoi satelliti portano avanti in Europa possa trainare anche la nostra crescita soft, nello stesso modo in cui le aziende emiliane e venete della meccatronica sono trainate dal boom delle vendite cinesi della Bmw e della Volkswagen.

Ma se l’Europa si sta frammentando sul piano industriale, i benefici di una maggiore integrazione europea non finiranno per aggiudicarseli i paesi del blocco tedesco?

La risposta è in due parti. In primo luogo, dipende da cosa intendiamo con «integrazione». Ci sono settori in cui anche noi possiamo portare a casa qualcosa. Per esempio, se in Italia decidiamo che siamo il parco divertimenti d’Europa, la cosa potrebbe dare buoni risultati. Il nostro scopo diventerebbe costruire eliporti e altre infrastrutture che attirino turisti, i quali arriverebbero dall’America, dalla Russia, dal Qatar per fare i loro tour dei campi da golf e tornare a casa. (…) La seconda parte della risposta è che il «blocco tedesco» è forte in altri settori. E da questo punto di vista bisogna anche tenere conto dei mercati che possono aprirsi negli Stati Uniti: non credo che gli americani vorranno riempirsi di frigoriferi tedeschi. Ciò che piace agli americani è il made in Italy. Se pensiamo agli americani, quali sono i paesi d’Europa meglio posizionati di fronte all’ipotesi di una più ampia integrazione europea (ed eventualmente euro-americana)? Francia e Italia. Quali sono i paesi d’Europa che possono vantare un marchio paese? Francia e Italia; e forse anche Spagna. Noi italiani abbiamo l’alta moda, il design, il lusso e l’alimentare. (…)

È per questo che ha cominciato a orientarsi sull’idea dell’integrazione euro-americana?

Sì, perché mi sembra il modo migliore per aumentare la dimensione della torta. E noi riusciamo a farlo se riusciamo ad andare in questi mercati che crescono molto, dove però è difficile «muoversi» per le piccole aziende italiane. C’è un numero interessante, che dice quanto è grande il Pil della Cina, dell’Europa e degli Usa. Se si guardano soltanto i tassi di crescita, si trae la conclusione che solo andando in Cina si possa crescere, perché la crescita della Cina è del 10 per cento l’anno. Però il Pil della Cina al momento è ancora molto inferiore al Pil degli Usa e dell’Europa. Quindi un 2 per cento di crescita in Europa e in America, genera più o meno lo stesso incremento che genera un 10 per cento in Cina: e ciò conferma che in realtà non è ancora così scontato che le aziende debbano per forza produrre in Cina, o vendere in Cina. (…) Bisogna dire che i dazi fra Europa e Usa sono già molto bassi, ed esiste un forte flusso di scambi. Pur essendo grandi aree economiche integrate al loro interno, e quindi relativamente chiuse al commercio con l’estero, Europa e Usa nel 2010 si scambiavano beni per 410 miliardi di dollari, con l’Ue che esportava in Usa beni per 240 miliardi di dollari e ne importava dall’America per 170. (…) In altre parole, esiste già un commercio di beni e prodotti abbastanza simili fra i paesi più ricchi d’Europa. Ebbene, potremmo fare lo stesso con gli Stati Uniti se ci fossero meno vincoli, e in particolare se ci fossero meno barriere non tariffarie. Ci sono grandi possibilità d’integrazione, che finora non sono state sfruttate. Le «barriere» da abbassare interessano vari settori, dalle assicurazioni ai servizi alle imprese, dal manifatturiero agli alimentari. Il senso di tutto questo è che possiamo (solo) vincere stando con i vincenti; anche se non siamo noi che trainiamo il carro in prima persona.

Francesco Daveri, Crescere si può, Il Mulino 2012
Intervista a cura di Sergio Levi

venerdì 7 dicembre 2012

O via le caste o si muore


L'autore di questo articolo è Luigi Zingales, economista e docente alla University of Chicago.

Tutti ce l'hanno con i partiti, che in effetti hanno molte colpe. Ma il Paese è pieno di gruppi chiusi, che mirano solo a perpetuare i propri privilegi e le proprie rendite di posizione. Danneggiando tutti gli altri, specie i giovani.

Negli Stati Uniti la protesta ha scelto come obiettivo Wall Street, simbolo della finanza, il luogo dove lavora l'1 per cento più ricco della popolazione. Coloro che - secondo i manifestanti - avrebbero derubato il rimanente 99 per cento di un futuro migliore. L'Italia è messa molto peggio degli Stati Uniti. Quale dovrebbe essere l'obiettivo della protesta? Dove si annida l'1 per cento di privilegiati che impedisce il successo al rimanente 99 per cento? La risposta più naturale sarebbe Montecitorio, simbolo del potere politico. Non sono forse i politici che ci hanno ridotto in questa situazione? Ma è una risposta che oscura la vera fonte del problema. I politici li eleggiamo noi.

Riflettono gli interessi (le lobby) del nostro Paese. Negli Stati Uniti la lobby più potente è sicuramente quella finanziaria, da cui il luogo della protesta. Seguendo la stessa logica in Italia il luogo adeguato per la protesta dovrebbe essere la piazza centrale di ogni paese. Lì si annida la lobby più potente d'Italia: i notabili locali. A differenza dei ragazzini maleducati di Wall Street, si tratta di signori di buone maniere. Ma dietro la loro aria bonaria, non sono meno pericolosi. Molti di loro criticano i sindacati per la difesa corporativa del posto di lavoro, ma la loro difesa dei privilegi è più strenua di quella dei camalli del porto di Genova. Non lo fanno in piazza, ma nei corridoi dei palazzi, e proprio per questo hanno maggiore successo.

Chi sono i notabili della piazza centrale? C'è il farmacista, spesso figlio del farmacista del paese. Le farmacie godono di restrizioni imposte dallo Stato alla vendita dei medicinali. Queste restrizioni mantengono i prezzi elevati a danno dei consumatori. Anche le timide riforme di Bersani sono state affossate dal governo Monti. Il commissario europeo che ha osato sfidare Microsoft ha dovuto chinarsi di fronte alla lobby dei farmacisti. Sopra la farmacia in molti paesi c'è' l'ufficio del notaio, altra professione tramandata di padre in figlio e protetta dallo Stato, che limita il numero di notai e impone tariffe minime. Non è solo una tassa su tutte le attività produttive, ma anche uno spreco di cervelli. I guadagni gonfiati dai limiti alla concorrenza attirano nella professione molti giovani brillanti, che avrebbero potuto dedicarsi proficuamente ad attività più produttive.

A fianco del notaio nella piazza principale c'è l'ufficio dell'avvocato, un'altra professione spesso tramandata di padre in figlio, protetta da un ordine corporativo. Di fronte alla farmacia in molte piazze centrali c'è la sede di una banca. Una volta era una banca locale, oggi è parte di un gruppo nazionale. Ma anche qui i posti si tramandano di padre in figlio. Il motivo è che la banca non è gestita secondo criteri di efficienza, ma secondo criteri clientelari. Anche se perde, poco importa, tanto i principali azionisti non hanno messo i soldi loro, ma i soldi altrui. Anzi i soldi nostri, i soldi che appartenevano ai comuni e che oggi sono controllati da fondazioni gestite dai residui della prima Repubblica.

Il notaio, il farmacista, il bancario, l'avvocato e il presidente della fondazione si trovano tutti a prendere l'aperitivo al bar centrale, anche quello tramandato di padre in figlio. Questo settore, almeno, è competitivo. Ma anche il barista gode di un vantaggio: una certa tolleranza nell'applicazione delle leggi. La sua cucina non è proprio a norma e la cassiera non sempre emette lo scontrino fiscale. Ma con l'appoggio dei notabili clienti riesce a farla franca.

Ognuno difende strenuamente il proprio privilegio, non capendo che il privilegio mio è costo tuo. L'Italia si sta trasformando in una società per caste, dove i giovani non hanno futuro. La strenua difesa dei privilegi personali alla fine danneggia tutti. Ma nessuno è disposto a rinunciare da solo al suo privilegio. Se è l'unico a farlo, ci perde. Solo se tutti lo facciamo contemporaneamente, ci guadagniamo tutti. C'è bisogno di un patto civile per le riforme, dove tutti rinunciano a qualcosa, per guadagnarci tutti. Se Monti non è capace di farlo chi mai lo potrà fare?

giovedì 6 dicembre 2012

C’è un caso Sallusti


Questo articolo di Filippo Facci, giornalista e scrittore, è stato pubblicato su Libero negli scorsi due giorni. Astenersi commentatori del livello «non esiste un caso Sallusti» o «la legge è uguale per tutti».
È una questione di principio grande come una casa: eppure la maggioranza dei «colleghi» non lo capisce o finge di non capirlo o più probabilmente non ha un’indipendenza morale sufficiente per capirlo. Capire che Sallusti non è Sallusti: è un giornalista. Non è il direttore del Giornale: lo è di un giornale. Ciò che è diverso, nel caso Sallusti, non è una sua particolare responsabilità rispetto ad altri casi analoghi o similari, ma è il trattamento ad personam che hanno voluto riservargli e che in potenza potrebbero riservare a qualsiasi giornalista o direttore che incorra nella riscoperta «diffamazione», grave e ricorrente incidente professionale in cui inciampano anche migliaia di giornalisti politically correct. Le condanne per diffamazione le hanno avute anche i Montanelli, i Biagi, i Bocca e soprattutto tanti direttori pienamente in attività che ne hanno centinaia (centinaia) anche se nessun giudice si è mai permesso di bollarli come «delinquenti abituali» socialmente pericolosi, bensì, al limite, solo come giornalisti che hanno scelto di esporsi e di pagarne un prezzo economico e legale. Ma questo prezzo non è mai stato la galera, nè qui né in nessun paese civile.
Forse il cervello atrofizzato di tanti colleghi ha scambiato tutta questa faccenda per l’ennesima degenerazione del bipolarismo muscolare: ma che un giornalista non debba finire in carcere – non per il reato addebitato a Sallusti – lo dice la Convenzione europea per i diritti dell’Uomo, lo dice l’Organizzazione per la sicurezza e l’organizzazione in Europa, insomma non lo dicono soltanto gli amici di Sallusti: posto che è diventato difficile riconoscerli. Ecco perché stanno a zero tutti i bla bla, i distinguo, i «ma però», le solidarietà a costo zero in due righe su Twitter, i cerchiobottismi e gli ambeduismi e gli acquattismi di chi non capisce che ciò che succede a Sallusti – giornalista – sta succedendo anche a loro. Ecco perché i dibattiiti fifty-fifty, a saldo a zero, non servono a niente: ci sono volte in cui fare di tutta l’erba un fascio può anche servire, volte in cui bisognerebbe solo ammettere che c’è un collega che è stato condannato alla galera e che lui, per protesta, aveva chiesto soltanto di poterci andare, senza i se e i ma che invece tanti di noi, ora e invece, distillano nei vacui teatrini di un parolame senza sbocco.
La legge? La piantino di tirare in ballo la legge sbagliata e le colpe dei politici: quelle sono assodate, ma la legge è sbagliata da decenni e a fare la differenza può essere solo la volontà di applicarla in un modo o nell’altro. Nel caso di Sallusti abbiamo un giudice querelante, due pm di primo grado e d’Appello, due collegi giudicanti e una Corte di Cassazione che hanno espressamente voluto la galera laddove migliaia di loro colleghi non l’avevano mai voluta e si erano limitati ad ammende e a pene sospese. C’è stato un salto di qualità che è figlio di questo tempo e che scivola nell’incapacità dei giornalisti di essere una corporazione vera, qualcosa che non si limiti a invocare rinnovi del contratto. Il Procuratore capo Edmondo Bruti Liberati, che ha comunque fatto i suoi sforzi per limitare gli effetti di una sentenza sproporzionata benché formalmente ineccepibile, forse temeva che mettere un direttore in carcere avrebbe provocato una mezza sollevazione: è tristissimo constatare quanto si sbagliava.
Nel Paese in cui tutto si accomoda, Alessandro Sallusti ha tirato dritto e si è limitato a invocare la galera (vera) a cui l’avevano condannato: e per averla invocata, rifiutando i domiciliari, ora gliene vogliono affibbiare altra. Questo per l’ironia piccola e imbecille di chi descrive per la centesima volta la fatidica «prigione dorata» che lo vede comunque privo della libertà. Sono tanti gli assurdi di tutta questa storia: ma la varietà di buoni e miti consigli che sono giunti e giungono a Sallusti – scritti o sussurrati – sapevano e sanno di scappatoia, di consigliata furbizia, di paternale per l’ottusa coerenza, di possibili soluzioni oblique rispetto alla via maestra che rimane roba da stolti, da quadrati, da poco italiani che non sanno neppure arrangiarsi. Questo, discretamente, hanno mormorato anche tanti giornalisti: i quali non è che non vogliono fare battaglie per Sallusti, semplicemente non vogliono fare battaglie e basta. Non ne sarebbero in grado. Mentre Sallusti, la battaglia, la sta facendo e non glielo stanno perdonando.

lunedì 3 dicembre 2012

Il Governo riduce i tempi di pagamento tra imprese: come svuotare il mare con un cucchiaino.


Nata con le migliori intenzioni, la riforma dei tempi di pagamento tra imprese si potrebbe trasformare in un’arma a doppio taglio.
Il Decreto Legislativo in vigore dal 24 ottobre scorso prevede che il periodo di pagamento non potrà superare 30 giorni di calendario, se non diversamente concordato tra le parti. Eventuali deroghe contrattuali non potranno essere superiori al periodo complessivo di 60 giorni consecutivi. Al fine di impedire il continuo ricorso a clausole contrattuali e prassi difformi, le associazioni di categoria rappresentate nelle Camere di commercio o nel Cnel saranno legittimate a proporre azioni in giudizio per promuovere la dichiarazione di illegittimità di queste clausole e l'applicazione delle relative sanzioni.

La norma ha recepito la direttiva 2011/7/Ue («Lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali») che l’Italia aveva obbligo di attuare pena la messa in mora da parte della UE.
Il Decreto dovrebbe applicarsi anche ai rapporti tra imprese e amministrazioni pubbliche. Il condizionale è d’obbligo visto che le rassicurazioni uscite sulla stampa a nome del viceministro dei trasporti Mario Ciaccia dovranno essere confermate da apposita circolare esplicativa. Resta il fatto che Stato, enti locali e sanità italiani sono i peggiori clienti del Vecchio continente con tempi medi di pagamento di 180 giorni contro i 65 della Francia e i 36 della Germania. Il risultato è uno stock di debiti commerciali del settore pubblico di 90-100 miliardi, e una scia di fallimenti.

Tutto bene quindi? Purtroppo no, almeno sul fronte dei rapporti tra privati. Se i ritardi della pubblica amministrazione paiono quasi sempre ingiustificati, quelli tra privati hanno una precisa causa: la difficoltà di accesso al credito.
Il caso limite è quello delle imprese nel settore della trasformazione di prodotti agroalimentari, costrette a pagare subito la materia prima, a pena di sanzioni molto pesanti, ma obbligate ad attendere tempi molto più lunghi per l’incasso del prodotto finito.
Con un sistema creditizio funzionante i disagi sarebbero limitati. Invece la tendenza di questi anni, nel 2012 in particolare, è di assoluto segno contrario. Aumento dei costi bancari, procedure di erogazione dei prestiti troppo lunghe, richieste di garanzie eccessive e tassi di interesse tropo alti. Sono questi, a grandi linee, i principali ostacoli incontrati dalle imprese che si rivolgono alle banche. Lo ribadiscono i dati raccolti dall'Osservatorio trimestrale sul credito delle Pmi nel terzo trimestre di quest’anno, resi noti lo scorso 27 novembre. Il 22,1% delle piccole imprese (rispetto al precedente 11,1%) ha visto rifiutata la propria domanda di credito, mentre è in riduzione, rispetto al trimestre precedente, la percentuale delle piccole imprese che si rivolgono alle banche per chiedere un nuovo prestito o la rinegoziazione di un prestito preesistente (15,4% rispetto a 21,7%).

Ancora una volta nessuno ha pensato di costringere le banche a fare il loro mestiere, che sarebbe quello di utilizzare i soldi ricevuti dalla Banca Centrale Europea (al tasso dell’1%) per dare credito alle imprese e ai cittadini. Le imprese avrebbero così la possibilità di investire, creare economia, pagare ed essere pagate nei termini stabiliti dalla legge.

A questo proposito il Direttore dell’Ascom della provincia di Alessandria - Roberto Cava - ha commentato (fonte: http://www.alessandrianews.it ): “E’ evidente la portata dirompente di questa norma, che colpisce il settore dei pubblici esercizi, della ristorazione e degli alimentaristi. Come spesso accade in questo periodo si è partiti da un principio giusto, quello di riequilibrare il rapporto tra grandi centrali di acquisto e produzione, che però produce effetti molto penalizzanti, soprattutto per le imprese più piccole. E questo francamente non è accettabile. Non lo è concettualmente e non lo è, in questo periodo, neppure praticamente. Molte aziende rischiano di non riuscire a fronteggiare la riorganizzazione imposta da una tale stretta sui termini di pagamento”

Se non si affronta il nodo del credito la riduzione (per legge) dei tempi di pagamento sarà solo una ulteriore beffa, come voler svuotare il mare con un cucchiaino. Nel frattempo le imprese, con l’acqua alla gola, affondano.