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sabato 24 novembre 2012

Un decalogo per salvare la politica

Da L'Espresso.it ecco un piccolo decalogo per una politica onesta e trasparente, che parte da una precondizione indispensabile: una legge sulla responsabilità giuridica dei partiti, che in Italia manca da sempre. Queste proposte ovviamente sono solo un inizio: aggiungete le vostre integrazioni e i vostri suggerimenti

1. Pubblicazione on line nel dettaglio dei bilanci nazionali e locali e di ogni spesa effettuata dai partiti e dai gruppi (parlamentari, regionali), con annesse motivazioni.

2.
Pubblicazione on line di redditi, proprietà e finanziamenti di tutti gli eletti, a ogni livello, compresa ogni eventuale pensione e ogni contributo ricevuto non solo dal proprio partito ma anche da privati, fondazioni o associazioni.

3.
Pubblicazione on line da parte di ogni istituzione e di ogni partito del suo parco di auto blu, dei loro assegnatari, dei loro costi e dei loro effettivi utilizzi.

4.
Un tetto vincolante e non aggirabile non solo ai rimborsi elettorali (cioè ai finanziamenti) ma anche alle spese per campagne elettorali sia di partito e di corrente sia individuali, i cui dati (entrate e uscite) devono essere interamente resi pubblici on line.

5.
Sospensione dei finanziamenti pubblici in caso di violazione degli obblighi di trasparenza e degli obblighi di democrazia interna (congressi, elezioni degli organi dirigenti, candidature).

6.
Fine delle indennità e dei vitalizi per i politici: solo normali stipendi, sui quali versare tasse e contributi (come tutti gli altri cittadini) e normali pensioni calcolate (con le stesse modalità di quelle a cui hanno diritto gli altri cittadini).

7.
Un parametro non modificabile per gli stipendi di ogni eletto (ad esempio, pari a tot volte il reddito medio calcolato dall'Istat).

8.
Fine dei doppi incarichi e incompatibilità non solo tra incarichi elettivi, ma in generale tra incarichi pubblici (comprese consulenze).

9.
Obbligo di motivazione e di trasparenza (sia sugli assegnatari sia sui costi) di ogni strumento o servizio dato in uso agli eletti (computer, tablet, corsi di aggiornamento).

10.
Abolizione dei finanziamenti ai giornali di partito e parificazione di trattamento di questi ultimi alle testate non di partito.

Tasse & Recessione. E se tornassimo alla vecchia lira?


L’Italia di questo ultimo anno e mezzo  è come un pugile colpito in pieno volto. L’energia di ogni pugno viene moltiplicata per tre, fino a che il pugile cade e non si rialza più. Questa è la fotografia che emerge dagli studi dell’economista Francesco Giavazzi, pubblicata sul sito lavoce.info.
Secondo Giavazzi un inasprimento fiscale pari a un punto di PIL  (Prodotto Interno Lordo) ne riduce il livello, nell'arco temporale di tre anni, di 3 punti.
Tradotto significa che ogni euro di tasse in più crea una perdita economica, nel medio termine, pari a tre volte tanto.  Se un punto di PIL corrisponde a circa 16 miliardi di euro, ogni volta che le manovre finanziarie raggiungono questo livello (inasprendo la pressione fiscale) causano una contrazione per la nostra economia di 48 miliardi di euro, spalmata nell’arco di tre anni.

Dove sarebbe la “luce in fondo al tunnel” di cui parla Mario Monti? In Italia nell'ultimo anno e mezzo sono state varate nuove imposte, centrali e locali, per un ammontare di circa 4 punti di Pil (stima del vice-direttore della Banca d’Italia, Salvatore Rossi, in una recente audizione parlamentare), che porterà una contrazione dell’economia intorno ai due punti e mezzo nei prossimi due anni. Da aggiungere al -3 per cento del 2012.
Le manovre di soli tagli e tasse stanno portando l’Italia e gran parte dell’Europa in piena recessione, e non si capisce cosa possa indurre all'ottimismo sulla crescita visto che politiche alternative, al momento, non se ne vedono.

La colpa però non è di Monti, dei mercati o delle banche (che fanno il loro sporco lavoro).
Il problema, evidenziato da noi e da tantissimi altri, è che i 17 Stati dell’Eurozona NON hanno moneta sovrana, in quanto l’Euro NON fa capo ad alcuno Stato. I paesi dell’Eurozona possono solo usare gli Euro, ma non creare come accade invece nei Paesi a moneta sovrana (USA col dollaro, Giappone con lo yen ecc.). Germania, Italia, Grecia per poter spendere devono cercarsi i soldi proprio come un normale cittadino alla prese con l'acquisto dell'auto o della casa. I governi hanno quindi solo due modi per trovare i quattrini: 1) tassando i cittadini, 2) chiedendo finanziamenti ai mercati privati di capitali, che detteranno i tassi di interesse mettendoci in competizione gli uni con gli altri.
A questo punto i nostri debiti nazionali sono veramente un problema, perché dobbiamo ripagarli ai privati da cui abbiamo preso in prestito gli euro. E’ evidente che non potendo più noi emettere moneta con  cui onorare quei debiti  veniamo considerati a rischio di insolvenza dai grandi mercati di capitali, che non hanno più fiducia in noi e ci declassano.

Uscire dall’Euro è un’idea folle? 
Non sembrerebbe, visto che il 21 novembre scorso il Washington Post ha pubblicato uno studio firmato da Bloomberg in cui si spiega come la lira sarebbe un toccasana per l'intera Unione europea per cercare di uscire dalla crisi del debito che sta generando un altissimo tasso di disoccupazione e alimentando la recessione economica. "L’euro non è sostenibile a questi livelli nel medio e lungo termine - ha spiegato Ulrich Leuchtmann, analista del settore valutario presso Commerzbank, a Bloomberg - l'Europa avrebbe bisogno di una moneta più simile a ciò che era stata la lira prima del 1999 piuttosto che al marco tedesco". Nell'analisi riportata dal Washington Post, infatti, l'agenzia america ricorda come nel settembre del 1992 il governo italiano svalutò la lira del 7% favorendo, in questo modo, le esportazioni e, quindi, l'economia nazionale.

I Paesi del Vecchio Continente continuano a perdere competitività, come un pugile suonato alle  corde. E’ evidente che il match con i mercati ha bisogno di nuove regole, possibilmente prima di cadere al tappeto e rischiare di non rialzarci più.

venerdì 23 novembre 2012

Aumentare le pensioni minime a 1000 euro. Facile, basta volerlo.

Pensionati sempre più poveri nel nostro Paese. Quasi 1 pensionato su 2 percepisce un assegno inferiore ai 1.000 euro, mentre il 14,4% (2,4 milioni di persone) è sotto i 500 euro. E' quanto emerge dall'indagine Istat e Inps sui trattamenti pensionistici nel 2010 pubblicata quest’anno.

L’incidenza delle pensioni sul Pil Sfiora il 17%, con un aumento dell’1,9% nel 2010 rispetto all’anno precedente. Un assegno su due quindi è sotto i 1.000 euro e la spesa pensionistica del 2010 è stata in aumento dell’1,9% rispetto al 2009, pari ad una somma di 258,4 miliardi di euro in totale. Sono 13,8 milioni i cittadini ai quali l’Inps paga la pensione, erogando oltre 18,5 milioni di trattamenti.  La maggior parte sono pensioni di vecchiaia (9,4 milioni, il 71% della spesa totale), al secondo posto le pensioni per i superstiti (3,8 milioni  ossia il14,9%), poi quelle assistenziali (7,9%), di invalidità (4,5%) e indennitarie (1,7%).
L’importo medio delle pensioni di vecchiaia è di 609 euro mensili, mentre quelle di anzianità hanno un valore medio di 1.473 euro mensili, con la differenza dovuta all’anzianità contributiva molto più bassa delle pensioni di vecchiaia. Tra le altre pensioni previdenziali, le più numerose sono quelle relative ai superstiti con un valore medio di 534 euro mensili.

Fin qui i dati pubblicati sugli organi di informazione. Ma quanto costerebbe portare a mille euro al mese tutte le pensioni di vecchiaia? I calcoli sembrano abbastanza semplici. Ogni mese si dovrebbero aggiungere circa 500 euro ad ogni pensionato, per un totale di circa 55/60 milioni di euro annui. Ma siccome i dati non sono mai precisi possiamo approssimare, per eccesso, a circa 100 milioni annui. Per trovarli sembra logico frugare nelle tasche di chi finora è stato graziato dalla finta equità impositiva del governo Monti.

Suggeriamo tre strade:

1) Recuperare quanto la Chiesa cattolica non ha ancora versato per l’ICI e, sin da ora, includerla nella tassazione IMU. In questi giorni Maurizio Turco, deputato radicale che nel 2006 ha portato alla Commissione Ue il caso Ici-Chiesa, ha affermato che nelle casse dello Stato manca un mare di denaro: ''Almeno 500 milioni all'anno''. Per il futuro (cioè la manovra in discussione) dovrebbe essere logico far pagare l'Imu non solo alla Chiesa, ma anche a partiti, sindacati e fondazioni bancarie, eliminando un assurdo privilegio a favore di queste realtà.

2) Eliminare il finanziamento pubblico ai partiti, che costa ogni anno circa 127 milioni di euro (2,3 miliardi di euro tra il 1994 e il 2012 in base ai dati elaborati dai radicali italiani). Le entrate del finanziamento pubblico verrebbero destinate annualmente ad altri scopi, ben più nobili.

3) Ridurre, anche di pochissimo, la mostruosa spesa militare italiana. Secondo i documenti ufficiali (fonte: Federazione dei Verdi) il volume finanziario complessivo a disposizione del ministero della Difesa è pari a 20 miliardi e 494,6 milioni di euro, nel 2011, a 21 miliardi e 16 milioni di euro nel 2012. Nel 2013 sarà di 21 miliardi e a 368 milioni di euro. I soldi per l’aumento delle pensioni minime comporterebbero una riduzione dello 0,0005% della spesa militare annua (!). In Germania, tanto per fare un esempio, la cancelliera Angela Merkel, ha ridotto, già dal 2010 le spese per armamenti di 10 miliardi.

Non sarebbe male riprendere le parole dell'amato presidente Sandro Pertini: "Svuotare gli arsenali e riempire i granai".

giovedì 15 novembre 2012

Finanziare la ricerca e non le banche. Una tiratina di orecchie a Mario Monti.



Tre anni, in media, per ottenere un brevetto. Ecco i tempi preventivati dal Ministero dello Sviluppo Economico nel sito ufficiale (http://www.uibm.gov.it). Se la competitività di una nazione si misura anche dal tempo necessario a proteggere (e valorizzare sul mercato) una nuova idea, l’Italia non è messa troppo bene.
La capacità di brevettazione influenza l’innovazione tecnologica e la possibilità di crescita di un paese: due facce della stessa medaglia. Una certa complicazione burocratica non è però sufficiente a giustificare un numero di brevetti decisamente inferiore rispetto a quello degli altri paesi sviluppati.
Nel confronto europeo l’Italia, con 82 domande di brevetti per milioni di abitanti depositate all’EPO (European Patent Office), è largamente sotto la media dell’Unione Europea (116). Al contrario Paesi quali Svezia (332) e soprattutto Germania (295) svettano in termini di innovatività.
In Italia si brevetta cinque volte in meno che in Germania: i dati del 2009, in ulteriore peggioramento negli anni successivi, dicono che a fronte delle 5 mila domande di brevetto italiane presentate all’Epo i tedeschi ne avevano presentate ben 25 mila.

Ma tutto questo, in concreto, che significa? I brevetti fanno funzionare le imprese e portano parecchi soldi agli istituti di ricerca, auto finanziandoli.
Tra gli istituti tedeschi il solo Max Planck guadagna ogni anno dalla «vendita» dei suoi prodotti di innovazione circa otto volte in più di Cnr (Centro Nazionale delle Ricerche), Enea e le nostre cinque migliori università tutti messi assieme: circa 16 milioni di euro, nel 2010, contro i quasi 2 milioni «italiani». Per non parlare del Fraunhofer, altro istituto germanico, i cui numeri viaggiano quattro volte al di sopra di quelli del Max Planck.
I finanziamenti pubblici tedeschi, contrariamente a quanto si pensa, non sono superiori a quelli Italiani. La differenza la fa interamente il settore privato, dove manca strutturalmente l’attitudine al rischio. Acquistare un brevetto e svilupparlo significa sempre addossarsi il rischio di un insuccesso: quello di tradurre in prodotto commerciale i risultati dei prototipi di laboratorio. Si predilige quindi investire su progetti scontati e poco innovativi, una strategia penalizzante perché porta a realizzare prodotti arretrati aggredibili con facilità dalla concorrenza asiatica.

La possibile soluzione a questa situazione drammatica (ma ben nota alla politica nazionale e locale) non può essere la solita distribuzione a pioggia di fondi.
Ecco alcune idee:
1) Al centro di tutto ci deve essere lo snellimento delle procedure burocratiche per il deposito dei brevetti. Chi ha buone idee deve poterle proteggere subito, visto che in tempo di crisi si è competitivi solo con l’innovazione. Anche perché i brevetti che possono essere “monetizzati” subito sono quelli legati alle nuove tecnologie (informatica, telecomunicazioni) dove la concorrenza è spietata, e un giorno in meno (non un anno) fa la differenza tra successo e insuccesso;
2) Impulso alla ricerca privata con la completa defiscalizzazione degli utili reinvestiti in nuove tecnologie. Nessuno ha avuto veramente il coraggio di farlo, ma è facile prevedere che le entrate per lo Stato, in termini di crescita economica, sarebbero di gran lunga superiori alla rinuncia di una parte delle entrate fiscali;
4) I fondi pubblici per la ricerca devono essere gestiti da chi ha conoscenze e capacità, non dalla politica. In Francia la vecchia agenzia per l’innovazione, Oseo, fa da “incubatore” per le imprese che vogliono accedere ai finanziamenti e segnala poi al governo le aree su cui vale la pena investire. Anche con Invitalia si è cercato di fare questo, ma il modello non è stato applicato correttamente e non ha dato buoni risultati. Le imprese da finanziare dovrebbero essere selezionate autonomamente con ricorso a soggetti quali venture capitalist e fondi di private equity.
5) lo Stato deve erogare i fondi per la ricerca in maniera più trasparente e con procedure più snelle. Spesso enormi risorse (come parte dei fondi FAS) sono distribuite con bandi poco trasparenti e difficilmente individuabili, su cui speculano società di servizi e di intermediazione. Peggio ancora quando i tempi si allungano e il progetto per il quale era stato chiesto il finanziamento non è più innovativo
6) Modificare la normativa in modo che gli investimenti convergano prioritariamente sulla nascita di nuove aziende (le cosiddette start-up), le uniche che possono creare nuova occupazione e sviluppo. Oggi le piccole start up rischiano di fallire perché iniziano ad anticipare soldi che arrivano dopo anni e, visto che non sono grandi aziende, nell’attesa rischiano il decesso.

Ci vorrebbe un governo più attento all’innovazione e meno alle esigenze delle Banche, che alla ricerca non contribuiscono più da tempo.

domenica 11 novembre 2012

Tre idee per riformare l’esame di Stato. Contro la casta degli ordini professionali


Il punto di partenza è il banner di una nota agenzia specializzata nell'abilitazione di avvocato in Spagna, dove l’esame di Stato non esiste. Cliccandoci sopra si scopre che l’aspirante avvocato italiano può sostenere alcuni esami integrativi (facili, tipo i test con le “crocette”) e tornare in patria con l’iscrizione all’albo degli “abogados” sulla base della semplice presentazione del titolo. Il professionista “abogado”, una volta in Italia, potrà esercitare la professione iscrivendosi come “avvocato stabilito” nella sezione speciale dell’albo professionale. Tutto in regola, lo prevede una sacrosanta norma europea.

Non è difficile scoprire che gli abogados in Italia sono sempre di più, e questo a causa del sistema medievale che regola l’accesso alle professioni. Quasi inutili i tentativi di rinnovamento: gli ordini sono il vero il collo di bottiglia tra i giovani e la libera professione. Una delle caste più resistenti del nostro ordinamento, presente in tutti gli schieramenti politici come esempio di trasversalità perfetta. 
La presunta riforma di questa estate (DPR 137/2012) ha solo aperto alcuni varchi verso un sistema più moderno: tirocinio massimo di 18 mesi (per gli ordini che già lo prevedono), obbligo di assicurazione del professionista a tutela del cliente, separazione tra gli organi disciplinari e gli organi amministrativi nell'autogoverno degli ordini, pubblicità informativa.
Mesi di trattative con il ministero della Giustizia hanno prodotto un accordo che dovrebbe aprire alla concorrenza nel mondo delle professioni. Ma a dimostrazione che poco cambierà c’è il giudizio del Comitato unitario dei professionisti: “il decreto è positivo perché dà un impulso di modernità ma ribadendo la centralità e la valenza del sistema ordinistico” (fonte: ilfattoquotidiano.it).

Il decreto ha salvato gli Ordini dall'abolizione automatica ma non ha affrontato il nodo dell’accesso alla professione, cioè la riforma degli esami di Stato. Abolirli non è possibile, perché previsti dall'articolo 33 della costituzione. Ma almeno che la loro gestione non sia più affidata agli Ordini, ossia a professionisti che devono decidere chi diventerà professionista. E’ del tutto falso quanto sostiene la casta, cioè che l’esame di Stato serva a selezionare le competenze di domani e a garantirne la qualità. Vorrebbero farci credere che tutelano i nostri interessi evitando la concorrenza. L’esperienza invece si fa sul campo, esercitando la professione, e non con l’ennesimo esame (chi è laureato ne ha già sostenuto tanti) valutato diversamente a seconda della sede in cui si svolge.

Ecco alcune proposte per una riforma dell’esame di Stato:
1) introdurre forti limiti alla discrezionalità delle commissioni. La prova scritta potrebbe essere organizzata come i test di accesso all’università: un certo numero di domande (2000/3000) note prima dell’esame, uguali per tutti, con risposte valutabili in modo oggettivo. Tempi di correzione quasi azzerati.
2) commissioni d'esame aperte alla società civile, affiancando gli appartenenti agli ordini con i rappresentanti del mondo accademico e dei consumatori (solo per fare un esempio). Tentare insomma di limitare l’autoreferenzialità tipica degli ordini professionali.
3) tirocinio obbligatorio, si, ma retribuito. E’ più probabile che in questo modo il praticante arrivi all’esame di Stato dopo un periodo di impiego in qualcosa di utile, e non solo come addetto alle fotocopie.

Occorre cioè farla finita con un esame usato da “calmiere” per l’accesso al mercato dei giovani professionisti.

La truffa del “capacity payment”. E' giusto pagare in bolletta le perdite dei produttori di energie non rinnovabili?


Si chiama “capacity payment” il meccanismo truffa introdotto questa estate nel decreto Cresci Italia per remunerare i “servizi di flessibilità” delle centrali termoelettriche. Un meccanismo che doveva partire dal 2017 ma è stato anticipato grazie ad un emendamento votato da tutti i partiti.

Negli ultimi anni gli impianti fotovoltaici ed eolici sono diventati un bel grattacapo per le centrali tradizionali. Fino al tramonto, infatti, gli impianti fotovoltaici producono energia a costo marginale zero e con priorità di dispacciamento, tenendo bassi i prezzi in Borsa. Capita così che gli impianti a ciclo combinato a gas durante il giorno spesso non riescano a vendere energia. Solo dopo il tramonto, nel giro di un’ora, entrano in gioco con una potenza di circa 20 mila megawatt.
Ed è questa la (cosiddetta) “flessibilità” che viene compensata dal “capacity payment”, cioè dal contributo ai produttori scaricato sulle bollette dei cittadini.
Strano a dirsi ma a luglio 2012 anche la Confindustria ha espresso “forte preoccupazione per la misura introdotta, che può innalzare ulteriormente il costo della bolletta energetica italiana per un valore compreso tra i 500 e gli 800 milioni di euro”. Nota Confindustria che "il tema degli effetti di spiazzamento delle fonti rinnovabili sul sistema termoelettrico esiste, ma non può essere affrontato in modo estemporaneo. In un Paese che ha una sovracapacità ormai strutturale di produzione elettrica di oltre il 30% non esiste un problema di capacity payment bensì quello di trovare opportuni meccanismi di gestione dei bilanciamento e riserva di energia coerenti con il finanziamento del mercato”.

Insomma bisognerebbe darsi da fare per accumulare la sovracapacità energetica e distribuirla meglio, anziché pensare solo agli interessi dei produttori di energie non rinnovabili. Che hanno anche un altro problema, ormai insostenibile.
Progettate prima del boom delle rinnovabili, le centrali tradizionali (gas, termoelettrico, carbone) si reggevano sull’attesa di produrre al 70/80 per cento della potenza massima. Oggi  sia per il crollo dei consumi sia per la concorrenza delle rinnovabili  restano spesso al minimo, e non superano per poche ore al giorno il 65 per cento della capacità. Invece di lavorare per 4 mila ore l’anno necessarie per ripagare l’investimento lavorano per 2500/3000 ore e, per recuperare, vendono l’energia a caro prezzo nel picco serale.
Così si scopre che i produttori elettrici hanno investito circa 25 miliardi di euro sui nuovi impianti a partire dal 2000, quando già si sapeva che avrebbero avuto difficoltà a ripagarsi per l'eccesso di offerta (vedi relazione di Assoelettrica del 2006).

Che conseguenze si avrebbero e per chi se quei 25 miliardi andassero in fumo? Di chi sono?
Ce lo dice l'ingegner G.B. Zorzoli, esperto di mercato elettrico e presidente della sezione italiana dell'International Solar Energy Society (fonte: qualenergia.it):
“Sono stati investiti da chi ha fatto gli impianti, ma finanziati con il project financing, dunque alla fine gli investimenti vengono dalle banche. Non sfruttando i cicli combinati si metterebbero in crisi le banche italiane. La cifra investita è semplicemente troppo grossa per lasciar fallire questi investimenti. Senza contare la ricaduta occupazionale, la colpa della quale poi verrebbe data alle rinnovabili. Non ci resta che sfruttare il capacity payment come possibilità tecnica, facendo attenzione che la remunerazione sia adeguata e sviluppando nel frattempo le tecnologie degli accumuli proritariamente in quelle funzioni non coperte dai cicli combinati”.

Ma questo non si chiama "rischio d’impresa"?
E perché gli errori di questi presunti imprenditori dobbiamo sempre e comunque pagarli noi?

giovedì 8 novembre 2012

Da fannulloni a motori della crescita. Qualche idea per dare competitività al pubblico impiego


I dipendenti pubblici in Italia sono troppi? E’ necessario diminuirne il numero per far quadrare i conti? I dati dicono di no.
Una ricerca presentata da Eurispes e Uil-Pa alla Camera evidenzia che la spesa per il pubblico impiego in Italia incide sul PIL (Prodotto Interno Lordo) per l'11,1%, perfettamente in linea con la media europea.
La distribuzione dei dipendenti pubblici vede al primo posto il settore scuola (32,8 per cento sul totale), seguito dalla sanità (20,9%) e da regioni e autonomie locali (15,7%). Al quarto posto i corpi di polizia con il 9,8% e a seguire ministeri, forze armate, agenzie fiscali, magistratura ecc.

Nel nostro Paese si contano 58 impiegati nella pubblica amministrazione ogni mille abitanti, ai livelli della Germania (54). In posizioni intermedie sono la Spagna, con 65 impiegati ogni mille abitanti, la Francia con 94 dipendenti ogni mille abitanti e il Regno Unito, con 92 dipendenti ogni mille abitanti. In Svezia sono 135 ogni mille abitanti.
La tabella elaborata dalla Corte dei Conti mostra come il numero di dipendenti pubblici in Italia sia di parecchio inferiore a Germania, Regno Unito e Francia.

Addirittura l’Italia è uno dei pochi paesi europei in cui negli ultimi dieci anni il numero di dipendenti si è ridotto: meno 4,7 per cento.

Tutto bene quindi? No, perché il vero gap tra Italia e resto d’Europa non è l’eccessivo numero degli impiegati o l’andamento della spesa per il personale, ma il livello di produttività delle pubbliche amministrazioni.
La produttività, in concreto, è la capacità di rispettare gli obiettivi di tempo e di risultato imposti dalla legge (dal rilascio di una concessione edilizia ad un certificato, ad una prestazione sanitaria). La Corte dei Conti nella relazione del 2012 sul costo del lavoro pubblico evidenzia come la produttività delle pubbliche amministrazioni, misurata sul PIL, abbia negli ultimi cinque anni un trend negativo (ad eccezione del 2010).

Sgombriamo subito il campo da un pregiudizio. La scarsa produttività non dipende dal fatto che i dipendenti pubblici non si impegnano sul posto di lavoro. Gli scandali e le truffe sono spesso clamorose, è vero, ma nel complesso piuttosto limitate. Appiattirsi su queste cose è fuorviante rispetto alle vere cause del problema, che sono principalmente di natura organizzativa.

Queste le proposte:
1) Semplificazione delle norme. Non ci stancheremo mai di ripeterlo, la legislazione vigente in quasi tutti i procedimenti amministrativi è complessa e confusa. Moltissimi adempimenti sono inutili. In caso di accorpamento (o eliminazione) diminuirebbero spese. tempi e numero di addetti necessari. Far funzionare la macchina amministrativa significa diminuirne gli ingranaggi (passaggi burocratici), altrimenti è quasi certo che qualcosa si inceppa.
2) Scegliere i manager pubblici con criteri meritocratici e non politici. Moltissime amministrazioni (soprattutto nel settore sanitario e dei servizi pubblici) hanno dirigenti scelti tra i politici trombati in qualche tornata elettorale. Se non si fanno concorsi almeno siano obbligatorie le selezioni pubbliche, mettendo in rete i currucula dei candidati e le motivazioni della scelta.
3) Investire nelle nuove tecnologie e nella formazione del personale. Tutte le pratiche della pubblica amministrazione, e sottolineo tutte, dovrebbero essere almeno avviabili on-line.
4) Mobilità del personale tra i diversi comparti e tra i diversi enti sulla base del reale fabbisogno dell’attività amministrativa, anche ricorrendo a misure obbligatorie. Parliamo di provvedimenti limitati alla provincia o regione di appartenenza, legati a carichi di lavoro particolari.

Lo sviluppo del paese dipende moltissimo dalla qualità dei servizi erogati dalla pubblica amministrazione. Ancora di più in periodo di crisi, quando diventa criminale ostacolare con la burocrazia le (pochissime) risorse che le forze produttive mettono in gioco.  

martedì 6 novembre 2012

Reddito minimo garantito. Una scelta coraggiosa contro la crisi


E’ giusto che tutti i cittadini abbiano un reddito garantito mensile di almeno 500 euro? E se si, con quali risorse?

L’attuale sistema italiano di sostegno del reddito (gli “ammortizzatori sociali”) è frammentario, discrezionale, inefficiente e iniquo.
E’ nato per “accumulazione”, con misure sovrapposte le une alle altre senza un disegno logico. Comprende, per capirci, una dozzina di misure previdenziali e assistenziali (congedo di maternità, assegno di maternità, assegni per il nucleo familiare, assegno per i nuclei familiari numerosi, integrazione al minimo, assegno sociale, pensione agli invalidi civili, cassa integrazione ordinaria ecc…) che risolvono poco e spingono alla ricerca di benefici e privilegi clientelari.
La maggior parte (circa il 50 per cento) della spesa per assistenza sociale finanzia un’unica misura: le pensioni di invalidità civile.

Quasi nulla è invece previsto in favore di soggetti che hanno perso il lavoro, hanno lavorato saltuariamente (senza l’anzianità contributiva necessaria all'erogazione degli strumenti previdenziali) o sono in cerca di prima occupazione.
Come dire: caro cittadino arrangiati e non fare tanto lo schizzinoso, qualcosa (prima o poi) troverai. Solo che nel frattempo la gente muore di fame (in qualche caso letteralmente) e l’economia è in piena recessione.

E’ quindi utile introdurre il reddito minimo garantito? A nostro avviso si. Non tanto per motivi solidaristici, ma fondamentalmente perché conviene.
Oggi, per fare un esempio, consideriamo una conquista di civiltà il sistema pensionistico pubblico sviluppatosi in tutta Europa nel secolo scorso. Tra i tanti benefici ha ridotto l’avversione al rischio delle famiglie e favorito, specie in agricoltura, l’innovazione tecnologica e organizzativa.
Oppure, per fare un altro esempio, nessuno rinuncerebbe al servizio sanitario nazionale. La tutela della salute è un diritto fondamentale dell'individuo e un interesse della collettività, nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana. Eppure questo sistema è nato (come lo conosciamo) una cinquantina di anni fa.

Il reddito minimo garantito può essere visto come un caso particolare del diritto al lavoro sancito dalla costituzione.
Prima obiezione: ma il reddito minimo non è la negazione del lavoro, cioè percepisci un reddito anche se non fai niente? A quel punto chi lavora più?
Seconda obiezione: se io prendo poco per non fare nulla, cosa mi impedisce di andare a lavorare in nero (in modo da risultare sempre “povero”) e arrotondare?

Proviamo a rispondere.
Il reddito minimo garantito non è una invenzione di oggi, esiste già, pur in forme diverse, in tutti i paesi dell’Unione Europea (vedi il rapporto del MISSOC) e in diversi nuovi Stati membri, ad eccezione di Grecia ed Italia.
Tutte queste esperienze mostrano come la garanzia di un reddito minimo permetta scelte familiari, educative, abitative e occupazionali più efficienti.

Premessa essenziale a tutto il sistema è il corretto funzionamento di una istituzione essenziale: i centri per l’impiego. Oggi in Italia svolgono quasi esclusivamente pratiche burocratiche, e solo in minima parte riescono a contattare imprese, enti, aziende ecc… Si potrebbe scrivere un trattato sulla loro inefficienza, ma limitiamoci a dire che nel 2012 è necessaria una riforma (o sostituzione con qualcosa di più efficace) in modo che, per esempio, inizino a fare un uso massiccio del web e dei social network per creare vere opportunità di contatto tra domanda e offerta.
Rendendo efficienti i centri per l’impiego il reddito minimo diventa l’equivalente di un sussidio unico di disoccupazione, garantito a tutti i cittadini maggiorenni non occupati a condizione che siano iscritti ai servizi di collocamento e che, se chiamati, accettino la proposta di lavoro.

Il risultato finale sarebbe di segno opposto al disincentivo dell’occupazione:
1) Il reddito minimo si percepisce solo finché non si viene contattati per un’offerta lavorativa, la cui accettazione diventa obbligatoria. La maggior parte dei cittadini cerca realmente lavoro. Il reddito minimo garantito darebbe dignità alle persone, in quanto potrebbero riqualificarsi nei periodi in cui il lavoro non c’è senza cadere in situazioni di povertà estrema 
2) Il lavoro nero si elimina solo con una politica di controlli e di incentivi (fiscali). Non esiste altro modo di difendersi. L’ipotesi che il reddito minimo incrementi il nero è una balla colossale. L’evasione c’è già ed è sotto gli occhi di tutti, bisogna cercare gli strumenti giusti per combatterla.
3) Il reddito minimo garantito combatterebbe invece il “cattivo lavoro”, cioè lo sfruttamento senza scrupoli di chi vuol sottopagare i dipendenti. Diventerebbe il gradino al di sotto del quale l’offerta non troverebbe domanda.

Rimane un’ultima fondamentale questione. Con quali risorse finanziare la riforma?
Secondo una stima di Tito Boeri (lavoce.info) un sussidio unico di disoccupazione garantito a tutti i disoccupati, indipendentemente dal tipo di contratto, assicurando in partenza non meno di 500 euro al mese, costerebbe a regime circa 15,5 miliardi di euro. Il sussidio si sostituirebbe alle indennità di mobilità, ai sussidi di disoccupazione ordinari e a requisiti ridotti e alle loro gestioni speciali per edilizia e agricoltura che costano in media 7,5 miliardi all’anno. Dunque il costo netto sarebbe di 8 miliardi. Il tutto potrebbe essere interamente finanziato con un contributo di circa il 3 per cento delle retribuzioni in essere, senza alcun prelievo dalla fiscalità generale.
Altre ipotesi potrebbe essere quella di destinare una quota della somma recuperata con la lotta all’evasione fiscale, 30 miliardi di euro nel solo 2011.

Insomma, la riforma può essere finanziariamente sostenibile, anche se la cosa più difficile è cambiare il nostro modo di pensare rapportando i costi ai benefici, analogamente a quello che si è fatto con altre riforme di portata generale. La crisi si combatte anche con scelte coraggiose.

giovedì 1 novembre 2012

Crescita zero. A cosa servono realmente le tasse?

Anche in questi giorni si discute di spending review, di pareggio di bilancio e, inevitabilmente, di tasse.
Il problema è: a cosa servono realmente queste tasse? La risposta sembra semplice: a far funzionare lo Stato. A ricavare le spese per la sanità, le scuole, le infrastrutture, le pensioni.
Ma è davvero cosi? Oppure servono solamente a pagare i debiti delle banche mentre poco o nulla rimane ai cittadini?

Proviamo a rispondere descrivendo cosa succede in due tipi di Stati, quelli a moneta sovrana (come gli USA, la Svezia, il Giappone o l'Italia prima del 2002) e quelli non a moneta sovrana, come i 17 paesi dell'area Euro (tra cui oggi l'Italia).
I primi, quelli a moneta sovrana, "creano" la propria moneta e la immettono nella collettività in forme più o meno complesse (come i titoli di Stato). Le tasse sono i soldi che il governo ha prima immesso e poi si è ripreso (in percentuale minore). Poiché le tasse vanno obbligatoriamente pagate nella moneta dello Stato, che solo lui può creare, si tratta davvero dei "suoi" soldi. Ma se lo Stato, ad esempio, ha immesso 100 e incassa 30 (con le tasse), come fa a tenere in piedi infrastrutture, sanità, pensioni ecc...?
Ecco il punto. In uno Stato a moneta sovrana questi servizi non sono finanziati con le tasse ma, molto semplicemente, con altra moneta. E quindi con il ricorso al deficit. Il deficit? Orrore! ci hanno sempre detto che il deficit è il demone da combattere. E poi a che servirebbero le tasse? perché gli Stati come il Giappone o gli USA tassano?
Le ragioni sono sostanzialmente tre:
1) limitare l’inflazione. Vale l’equazione: inflazione = troppo denaro in giro e troppi pochi prodotti. Se ciò accade, lo Stato tassa, si riprende i suoi soldi elargiti spendendo, e drena così l’allagamento di denaro per contenere l’inflazione.
2) scoraggiare o  incoraggiare taluni comportamenti. Si tassa l’alcool, il fumo, o l’inquinamento, e si detassano le beneficenze o le ristrutturazioni, ecc.
3) imporre ai cittadini l’uso della sua moneta sovrana. E’ l’unico modo. Pensiamoci bene: non esiste altro motivo per cui i cittadini debbano accettare la moneta di Stato, se non le tasse. Ognuno di noi, se vuole, potrebbe teoricamente inventarsi una moneta e stamparla. Ma a cosa servirebbe se la tassazione dovessimo comunque pagarla nella moneta ufficiale dello Stato? Ogni altra moneta “non ufficiale” diventa quindi carta straccia.

La cosa migliore che uno Stato a moneta sovrana può fare per i propri cittadini è di spendere a deficit, cioè creare debito pubblico. Se la spesa a deficit dello Stato è ben diretta, essa produrrà una crescita economica della collettività (diventerà più ricca e spenderà di più); questa crescita alzerà il Prodotto Interno Lordo (PIL), che a sua  volta aumenterà le entrate fiscali senza aumentare le tasse.
Questa operazione arginerà automaticamente il deficit in un circolo virtuoso. Ancora più importante, l’indebitamento a deficit dello Stato limiterà l’inflazione perché stimolando la ricchezza nazionale si stimola la produttività (come detto l’inflazione corrisponde a troppo denaro in giro e pochi prodotti).

La storia e l’attualità mostrano come questi schemi siano correntemente utilizzati. Durante e dopo la seconda guerra mondiale gli USA usarono il debito e il deficit per creare una ricchezza senza precedenti fra gli americani (beni finanziari al netto) e di conseguenza nel resto del mondo. L’America ha moneta sovrana. Fu il periodo più prospero che le economie moderne ricordino: Washington viaggiava con un deficit di bilancio del 25% del PIL. Per rimanere a noi, l’Italia degli anni ’80 era ai primi posti in Europa per produzione industriale e per risparmio privato pur con un deficit enorme.
Il Giappone negli anni ’90  si trovò in piena deflazione (pochi soldi in giro e troppi prodotti invenduti), interessi sul debito al rialzo, e stagnazione. Ha il Giappone mai mancato un pagamento dei suoi debiti? No. Neppure quando le agenzie di rating l’avevano declassato. Perché non ha fatto bancarotta? Perché ha moneta sovrana e i mercati sanno che può pagare sempre senza limiti di spesa. Oggi il Giappone ha un debito pubblico che è del 229% del PIL, il più alto del mondo, quasi il doppio dell’Italia (119%). Gli USA sono al 100% del PIL, come Irlanda e Portogallo. Eppure Tokyo e Washington non sono strangolati dagli alti tassi d’interesse sui prestiti, mentre Italia, Portogallo e Grecia si.

E veniamo quindi ai nostri problemi.
I 17 Stati dell’Eurozona NON hanno moneta sovrana, in quanto l’Euro NON fa capo ad alcuno Stato. I paesi dell’Eurozona lo possono solo usare, non creare come accade invece nei Paesi a moneta sovrana (USA col dollaro, Giappone con lo yen ecc.). Germania, Italia, Grecia per poter spendere devono cercarsi i soldi proprio come un normale cittadino alla prese con l'acquisto dell'auto o della casa.
Bene, con l’entrata nell’Unione Monetaria Europea i governi hanno soli due modi per trovare i quattrini:
1) tassando i cittadini
2) chiedendo finanziamenti ai mercati privati di capitali, che detteranno i tassi di interesse mettendoci in competizione gli uni con gli altri
A questo punto i nostri debiti nazionali sono veramente un problema, perché dobbiamo ripagarli ai privati da cui abbiamo preso in prestito gli euro, mentre uno Stato a moneta sovrana è indebitato unicamente con se stesso (e NON deve tassare i cittadini per poter spendere).
E’ evidente che non potendo più noi emettere moneta con  cui onorare quei debiti  veniamo considerati a rischio di insolvenza dai grandi mercati di capitali, che non hanno più fiducia in noi e ci declassano. Abbiamo perso ogni garanzia di autorevolezza monetaria e finanziaria: i mercati stessi ci stanno bocciando a man bassa. Significa perdita d’investimenti immensi, cioè perdita di posti di lavoro e tagli a tutto ciò che è pubblico.
Ecco le reali ragioni della corrente crisi europea, che non riguarda solo Grecia e Italia o Portogallo e Spagna, ma assolutamente tutti, Francia e Germania inclusi. A questo noi italiani aggiungiamo un sistema economico poco competitivo  e una cultura politica disastrosa (vedi alla voce corruzione).

A cosa servono davvero le tasse nei paesi dell’Eurozona? a pagare i debiti che gli Stati hanno contratto con gli istituti privati, impoverendo i cittadini. Ecco perchè le manovre finanziare stanno generando solo effetti recessivi.
Il pareggio di bilancio che l’Italia ha promesso per il 2013 servirà forse a tranquillizzare i mercati. A noi cittadini porterà solo più tasse, più disoccupazione, meno investimenti e meno servizi.


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