Tre anni, in media, per ottenere un brevetto. Ecco i tempi
preventivati dal Ministero dello Sviluppo Economico nel sito ufficiale (http://www.uibm.gov.it). Se la competitività
di una nazione si misura anche dal tempo necessario a proteggere (e valorizzare
sul mercato) una nuova idea, l’Italia non è messa troppo bene.
La capacità di brevettazione influenza l’innovazione tecnologica e la possibilità di crescita di un paese: due facce della stessa medaglia. Una certa complicazione burocratica non è però sufficiente
a giustificare un numero di brevetti decisamente inferiore rispetto a quello
degli altri paesi sviluppati.
Nel confronto europeo l’Italia, con 82 domande di brevetti
per milioni di abitanti depositate all’EPO (European Patent Office), è
largamente sotto la media dell’Unione Europea (116). Al contrario Paesi quali
Svezia (332) e soprattutto Germania (295) svettano in termini di innovatività.
In Italia si brevetta cinque volte in meno che in
Germania: i dati del 2009, in ulteriore peggioramento negli anni successivi,
dicono che a fronte delle 5 mila domande di brevetto italiane presentate
all’Epo i tedeschi ne avevano presentate ben 25 mila.
Ma tutto questo, in concreto, che significa? I brevetti
fanno funzionare le imprese e portano parecchi soldi agli istituti di ricerca,
auto finanziandoli.
Tra gli istituti tedeschi il solo Max Planck guadagna ogni
anno dalla «vendita» dei suoi prodotti di innovazione circa otto volte in più
di Cnr (Centro Nazionale delle Ricerche), Enea e le nostre cinque migliori
università tutti messi assieme: circa 16 milioni di euro, nel 2010, contro i
quasi 2 milioni «italiani». Per non parlare del Fraunhofer, altro istituto
germanico, i cui numeri viaggiano quattro volte al di sopra di quelli del Max
Planck.
I finanziamenti pubblici tedeschi, contrariamente a quanto
si pensa, non sono superiori a quelli Italiani. La differenza la fa interamente
il settore privato, dove manca strutturalmente l’attitudine al rischio.
Acquistare un brevetto e svilupparlo significa sempre addossarsi il rischio di
un insuccesso: quello di tradurre in prodotto commerciale i risultati dei
prototipi di laboratorio. Si predilige quindi investire su progetti scontati e
poco innovativi, una strategia penalizzante perché porta a realizzare prodotti
arretrati aggredibili con facilità dalla concorrenza asiatica.
La possibile soluzione a questa situazione drammatica (ma
ben nota alla politica nazionale e locale) non può essere la solita
distribuzione a pioggia di fondi.
Ecco alcune idee:
1) Al centro di tutto ci deve essere lo snellimento delle
procedure burocratiche per il deposito dei brevetti. Chi ha buone idee deve
poterle proteggere subito, visto che in tempo di crisi si è competitivi
solo con l’innovazione. Anche perché i brevetti che possono essere
“monetizzati” subito sono quelli legati alle nuove tecnologie (informatica,
telecomunicazioni) dove la concorrenza è spietata, e un giorno in meno (non un
anno) fa la differenza tra successo e insuccesso;
2) Impulso alla ricerca privata con la completa
defiscalizzazione degli utili reinvestiti in nuove tecnologie. Nessuno ha avuto
veramente il coraggio di farlo, ma è facile prevedere che le entrate per lo
Stato, in termini di crescita economica, sarebbero di gran lunga superiori alla rinuncia
di una parte delle entrate fiscali;
4) I fondi pubblici per la ricerca devono essere gestiti
da chi ha conoscenze e capacità, non dalla politica. In Francia la vecchia
agenzia per l’innovazione, Oseo, fa da “incubatore” per le imprese che
vogliono accedere ai finanziamenti e segnala poi al governo le aree su cui vale
la pena investire. Anche con Invitalia si è cercato di fare questo, ma il
modello non è stato applicato correttamente e non ha dato buoni risultati. Le
imprese da finanziare dovrebbero essere selezionate autonomamente con ricorso a
soggetti quali venture capitalist e fondi di private equity.
5) lo Stato deve erogare i fondi per la ricerca in maniera
più trasparente e con procedure più snelle. Spesso enormi risorse (come parte
dei fondi FAS) sono distribuite con bandi poco trasparenti e difficilmente
individuabili, su cui speculano società di servizi e di intermediazione. Peggio
ancora quando i tempi si allungano e il progetto per il quale era stato chiesto
il finanziamento non è più innovativo
6) Modificare la normativa in modo che gli investimenti
convergano prioritariamente sulla nascita di nuove aziende (le cosiddette
start-up), le uniche che possono creare nuova occupazione e sviluppo. Oggi le
piccole start up rischiano di fallire perché iniziano ad anticipare soldi che
arrivano dopo anni e, visto che non sono grandi aziende, nell’attesa rischiano
il decesso.
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