E' di questi giorni la notizia degli incoraggianti benefici delle olimpiadi sul prodotto interno lordo (PIL) della Gran Bretagna. La vendita dei biglietti ed il giro di affari legato a commercio, ristorazione e alberghi ha incrementato il PIL dell'1 per cento nei tre mesi fra luglio e settembre, riportando l’economia in attivo dopo nove mesi di decrescita. Oltre al fatto che i giochi olimpici londinesi si sono conclusi con una spesa 400 milioni di sterline in meno rispetto al budget stanziato di circa 9 miliardi.
Il governo Monti ha invece saggiamente rinunciato alla candidatura italiana alle olimpiadi del 2020: la storia recente ha insegnato che da noi i grandi eventi sportivi possono dimostrarsi un ottimo affare (per pochi) o, più spesso, un terremoto finanziario. Tutti i recenti appuntamenti organizzati in Italia, dai mondiali di calcio del 1990 alle olimpiadi invernali di Torino 2006 ai mondiali di nuoto del 2009, hanno lasciato in eredità passivi più o meno pesanti e opere incompiute con spese gonfiate a dismisura, cantieri sotto sequestro.
Ma perché in Italia le grandi opere (e abbiamo preso ad esempio il caso dello sport) non creano ricchezza?
Lasciando da parte l’esempio delle olimpiadi, dove negli ultimi vent’anni le ombre prevalgono sulle luci, il primo dato di fatto è sempre la corruzione. Secondo il Rapporto 2012 della Corte dei Conti la corruzione colpisce le grandi opere con un incremento di costi stimato nel 40%. Il corruption perception index di Transparency International, che misura la percezione percepita, colloca l’Italia al 69° posto, a pari merito con Ghana e Macedonia, con un progressivo aggravamento negli ultimi anni. Il Rapporto evidenzia come un valore nell'indice di percezione della corruzione al livello di uno dei Paesi meno corrotti avrebbe garantito all'Italia un tasso di crescita economica di oltre il triplo a breve termine e di circa il doppio a lungo termine (1970-2000).
Quindi se eliminiamo la corruzione tutti problemi sono risolti? La risposta è no.
Sicuramente il costo delle grandi opere diminuirebbe e, soprattutto, queste verrebbero concluse in tempi decenti. Però non si risolve il nodo di come trasformarle in volano di sviluppo, che è il motivo per cui le grandi opere si fanno.
Il problema è principalmente normativo, in quanto la legislazione nazionale bada solo al breve periodo e non si occupa dei benefici economici a lungo termine. Tutta la normativa sui lavori pubblici si occupa quasi esclusivamente di come spendere (bene, in teoria) i soldi per costruire le grandi e piccole opere. Stop, le cose finiscono qui. Ma costruire è solo il primo passo.
Per creare sviluppo è molto più importante il passo successivo, cioè gestire quello che si è costruito.
Occorre cioè una rivoluzione copernicana. Quando si realizza un'opera pubblica (un palazzetto dello sport, un museo, un impianto per grandi eventi etc etc) prima si appalta la gestione e poi la costruzione. Prima si cerca il soggetto imprenditoriale che dovrà occuparsi di far funzionare l'opera, solo in un secondo momento si appaltano i lavori per realizzare i "muri".
Con il vantaggio:
a) che il progetto esecutivo terrebbe conto anche delle esigenze del gestore, oltre che delle idee del progettista (che spesso bada solo alla sua parcella e per il quale le varianti in corso d'opera sono fonte di guadagno)
b) si eliminerebbero quasi totalmente le varianti, fonte di spreco e di ritardi
c) l'Amministrazione pubblica capirebbe in anticipo se l'intervento è sostenibile e quanta occupazione può creare, e potrebbe anche chiedere l'apporto di capitali privati.
Tutto ciò in parte esiste già nel codice dei contratti (decreto legislativo 163/2006) dove si parla di appalti di concessione lavori. Ma senza obblighi. L'applicazione di questo tipo di contratti è lasciata alla buona volontà della Pubblica Amministrazione, che infatti non gli applica mai.
Ecco, basterebbe una piccola modifica alle leggi attuali per imporre meccanismi di gestione delle opere pubbliche più virtuosi e realmente in grado di generare sviluppo e occupazione.
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